Il sapore della notte
La borsetta in pelle di Armani ricadde lentamente sul tavolino, mentre Lyla chiudeva dietro di sé la porta di casa, con tutta la flemma di questo mondo. Sgusciò fuori dalle sue scarpe coi tacchi, lasciandole all'ingresso una in piedi e una rovesciata, camminando a piedi scalzi sulla moquette, e fatti un paio di passi si sfilò la giacca di pelle, gettandola sul bracciolo del divano. Poi si abbandonò anche lei, stendendosi morbidamente con una gamba ciondoloni e appoggiando il polso destro sulla fronte. Lanciò un'occhiata all'orologio di legno appeso alla parete del soggiorno: segnava le 20.25. La lancetta dei secondi ticchettava stancamente, quasi si fosse stufata di fare sempre lo stesso giro 1440 volte al giorno, tutti i giorni.
Era stata una giornata orribile.
Tanto per cominciare, quella mattina aveva tentato di preparare la colazione, seguendo i
consigli di una trasmissione televisiva. Niente di troppo difficile, per cominciare: due
frittelle, un bicchiere d'aranciata. Tutto sembrava andar bene, finché mentre spremeva
l'arancia non si era accorta che le frittelle stavano bruciando, e mentre le toglieva dal
fuoco si era scordata di spegnere lo spremiagrumi, che lasciato a sé stesso aveva sparso
quel povero frutto per mezza cucina. Per spegnerlo si era sporcata tutto il vestito, e la
padella con le frittelle lasciata in bilico era caduta, spiaccicandosi per terra; e così
si era ritrovata con due frittelle carbonizzate sul pavimento, e più aranciata sparsa per
la cucina di quanta riuscisse a raccoglierne in un bicchiere. Mentre ripuliva tutto e si
cambiava, non aveva potuto fare a meno di maledirsi per i suoi goffi e insensati tentativi
di imitare una persona normale: se una droide non ha bisogno di mangiare, perché
sprecarsi tanto? Che le era saltato in mente
E così, era finita ingloriosamente la
sua parentesi culinaria mattiniera.
Sul lavoro era stato ancora peggio. La macchina era dal carrozziere (non riusciva ad
andare d'accordo con uno solo degli stupidi congegni del ventesimo secolo), e così aveva
dovuto andare con i mezzi pubblici, salendo su autobus e metropolitane piene zeppe di
gente. Per i suoi sensi era stata una vera tortura
riusciva a distinguere decine di
odori (sudori, cattivi dopobarba, riviste appena stampate, capelli non lavati, aliti
pesanti, odore di chiuso, gas di scarico), suoni (lo stridere dei freni contro il metallo,
i clacson delle automobili, le imprecazioni degli automobilisti, colpetti di tosse per
schiarirsi la voce), milioni di colori. Un'invasione di molecole e onde quasi
intossicante. In più, un paio di volte in metro qualche maniaco le aveva pure fatto la
mano morta. Poi, non appena era entrata a Canale 00, era stata aggredita da un mare di
voci, telefoni che squillavano, fogli da tutte le parti. Stretta nella sua minigonna nera
e nella sua camicetta di seta fucsia si era diretta dritta nel suo ufficio, senza neanche
guardarsi intorno, il rumore dei suoi tacchi perso nella baraonda vociante e fracassona
dei suoi colleghi. Questo alle 8.30 del mattino.
Solo 5 minuti dopo (aveva appena acceso il computer) Mel si era precipitato attraverso la
sua porta, lamentandosi che un sacco di cose non erano ancora pronte, seguito subito dopo
da Enrietta che si lamentava anche lei di qualcosa. Poi i due avevano iniziato a
bisticciare davanti alla sua scrivania, ma già da un pezzo aveva smesso di seguire il
discorso. Angus e Mike avevano litigato ad entrambe le riunioni della giornata: quando
Angus si era accorto che la macchinetta del caffè non funzionava, aveva accusato Mike
(servitosi prima di lui) di averla rotta; Mike naturalmente si era infuriato e aveva
controbattuto che era colpa sua, visto che la usava almeno 15 volte al giorno, e la cosa
era irrimediabilmente degenerata nella solita rissa da bar. Poi, nella pausa pranzo, Geena
Onair si era scoperta improvvisamente loquace e desiderosa di confidenze tra
"amiche", e dopo averle raccontato metà della sua vita fin da quando era alle
medie era passata a interrogarla sul suo passato, mettendola in crisi per 10 minuti buoni,
finché non dovette mollare l'osso per condurre il TG dell'una. Durante il telegiornale un
paio di servizi non erano andati in onda quando annunciati, e questo aveva gettato la
povera ragazza in depressione, la quale poi aveva passato un'ora a piangere nel suo
ufficio perché era convinta che tutti ce l'avessero con lei e glielo facessero apposta
per boicottarla. Lyla le avrebbe versato in testa il vaso di fiori che aveva sulla
scrivania. Dopo era stata la volta di altre lamentele, per il lavoro che non aveva potuto
svolgere durante i pianti di Geena, e che si era accumulato: aveva un sacco di bozze da
correggere e poco tempo per farlo, quindi dovette sbrigarsi per recuperare il tempo perso.
Mentre portava le bozze corrette per l'approvazione del direttore si era scontrata con
Eugene Blorf, che raffreddato fradicio non sapeva neanche dove metteva i piedi: erano
caduti tutti e due e i fogli si erano mischiati, e in più Eugene le aveva pure starnutito
in faccia. Sorvolando sulle altre grane assortite che le erano piovute addosso per il
resto dell'orario di lavoro, non appena era uscita dall'ufficio l'aveva colta un
immancabile sgrullone di pioggia, ma se non altro era immune alle malattie. Non ebbe il
coraggio di affrontare un altro viaggio sui mezzi pubblici, e chiamò un taxi: il
tassista, anche lui insopportabilmente loquace, era così occupato a sbirciare dallo
specchietto tra le pieghe della sua gonna che, poverino, non si accorse di aver preso la
strada più lunga per casa sua; ma il pagamento della corsa, quello lo contò assai bene.
Sopportata l'ultima prova, ovvero lo sguardo indagatore del portiere (in un certo senso,
quel tizio le dava i brividi
temeva sempre di trovarselo un'altra volta in casa, a
frugare tra la sua roba di tempoliziotta), finalmente riuscì con le ultime forze a
estrarre la chiave e a infilarsi nel suo appartamento, chiudendo fuori il resto di
quell'insopportabile, caotico, fastidiosissimo mondo.
Ma a che diavolo sarebbe servito? Domattina sarebbe stato di nuovo il solito asfissiante ventesimo secolo, e tutto sarebbe ricominciato daccapo, come un programma che va in loop. Di nuovo quel mare di gente, di nuovo le grane in ufficio, di nuovo Angus. E ancora una volta avrebbe recitato la solita parte della Caporedattrice di Canale 00, mostrandosi sofisticata, professionale, gentile, paziente e odiosamente falsa.
Restò così, una mezz'ora buona, a fissare il soffitto: un'enorme pagina bianca su un
libro di risposte non scritto. Aveva sentito dire tante volte che una doccia lava via i
cattivi pensieri
in fondo, provare non costava molto.
Si alzò e si sfilò svogliatamente il fermacapelli, e la sua chioma dorata ricadde
fluente e libera sulle sue spalle. Abbandonò il resto dei suoi vestiti seminando una scia
per la strada, prima la camicetta, poi la gonna, infine la biancheria intima, e si infilò
sotto il getto di acqua calda, cercando di abbandonarsi a un sensazione che avrebbe dovuto
essere liberatoria.
Tutto quello che riuscì a sentire era il rumore e la pressione dell'acqua, e la composizione chimica del bagnoschiuma.
Era ancora sprofondata nell'asciugamano, quando suonarono alla porta. Si coprì con un
asciugamano rosa: dallo spioncino vide Cinthya, la donna che aveva conosciuto poche
settimane prima giù al parco. Aprì la porta, reggendosi con una mano l'asciugamano sul
capo, per evitare che il turbante cadesse. Cinthya aveva una pianticella in mano: una
rametto di gerani, con un piccolo bocciolo non ancora schiuso.
"Ciao, Lyla. Eri sotto la doccia? Scusa, forse non è il momento adatto."
"Oh, non importa. Dimmi pure... vuoi entrare?", rispose la droide, continuando a
strofinarsi l'asciugamano sui capelli biondi. La cortesia imponeva di essere gentile, ma
per la verità in quel momento non aveva alcuna voglia né di vederla, né di parlarle, o
farla accomodare e offrirle qualcosa. In cuor suo avrebbe solo voluto cacciarla via.
"Oh, no, devo andare a casa, ho lasciato le pentole sul fuoco e la mia famiglia mi
aspetta per cena..."
(Alleluia. Grazie al Cielo.)
"... no, sono venuta solo a regalarti questa!", esclamò Cinthya, porgendole il
vasetto con lo striminzito vegetale.
"Uh?", fece Lyla sorpresa.
"Beh, mi sono un po' esercitata con quel manuale di giardinaggio che mi hai regalato,
sai... sono riuscita a far crescere un bel vaso di gerani sul terrazzo, e siccome li trovo
molto belli stavo tentando di ottenerne altri per talea. Questo qui mi è avanzato, e
visto che è grazie al tuo libro che li ho ottenuti, mi è sembrato giusto regalartene
uno... ma forse non è stata una grande idea, hai detto di non avere la passione delle
piante...", disse Cinthya, con tono di voce decrescente, causato dallo sguardo
perplesso stampato sul viso di Lyla. Lyla si rese conto che la stava mettendo in
imbarazzo.
"Oh. Oh, no, no, hai fatto bene! Davvero! Scusa, al lavoro ho avuto una giornata
orribile e sono piuttosto stanca... devo avere un aspetto orribile. Ma mi fa piacere,
davvero! Ti ringrazio!", disse sforzandosi di sorridere. In fondo era stato davvero
un pensiero gentile.
"Bene, sono contenta. Allora ricordati di innaffiarli una volta al giorno e metterli
in un posto aerato e luminoso, su una finestra o un balcone. Vedrai che crescono
praticamente da soli!"
"Ok, grazie davvero. Sicura che non vuoi...?"
"No, no, devo proprio scappare, non vorrei che mi si bruciasse il pollo... ciao,
cara!"
"C-ciao, Cinthya... e grazie!"
Mentre saliva sull'ascensore, Cinthya le lanciò un sorriso.
Lyla chiuse la porta e squadrò la pianta con aria interrogativa, pensando in modo
quasi rumoroso: "E ora, che me ne faccio di te?"
Infine decise di collocarla all'angolo della finestra della sua camera da letto: le diede
un mezzo bicchiere d'acqua e poi guardò un po' di televisione sul divano per ammazzare il
tempo, dimenticandosene completamente per il resto della serata.
Alla TV davano le solite banalità: un talk show, un varietà comico, un melenso film
romantico, Angus... verso le 9 e mezza, già stufa marcia, vestì un paio di
shorts fucsia, un top elasticizzato dello stesso colore, una camicia bianca sbottonata e
senza legarsi i capelli si infilò a letto.
Il sonno, per lei, era sempre stato una sfida, qualcosa che le era difficile capire.
Essendo una droide, non aveva fisicamente bisogno di dormire. Era pur vero che
poteva "addormentarsi" quando voleva: le bastava entrare in modalità "SLEEP" e in un secondo il suo
sistema si spegneva per ricaricarsi. Ma non era questo ciò che cercava lei. Il sonno
degli esseri umani era qualcosa di diverso, qualcosa di infinitamente più semplice e più
complesso allo stesso tempo. Era riposo, era un calore piacevole, era un momento per
rigenerarsi delle fatiche quotidiane, non solo "ricaricarsi", ed era anche un
momento per stare da soli con sé stessi, riflettere in pace se lo si desiderava. Per lei,
non era altro che un'opzione, un comando in un menu a tendina, una funzione che si
attivava di tanto in tanto per recuperare energia ed eseguire programmi diagnostici.
E poi, i sogni. Li aveva provati, tempo fa... grazie al biochip installato da
Leonard Vertighel, aveva saputo cosa significava sognare. La sua mente artificiale aveva
per alcuni attimi sfiorato l'inspiegabile, illogica esperienza dell'onirico, ma da quando
il chip le era stato rimosso, i sogni erano cessati. Allora per lei era difficile capirli,
ma adesso in un certo senso le mancavano. E così, ogni notte, si metteva a letto nel
tentativo di avvicinarsi al sonno, e ai sogni, come fanno le persone normali. Al luogo in
cui prendono forma aspettative, desideri e pulsioni nascoste, dove la fantasia non ha
limiti e ognuno può essere quello che vuole.
Ma non ci era mai riuscita. Si era sforzata in tutti i modi, ma non aveva più potuto sognare. Poteva creare qualunque simulazione, certo, ma si trattava sempre di sforzi coscienti, non di qualcosa che veniva dal profondo del suo "io". E tante volte, si domandava cos'era questo "io" che tanto andava cercando. Era l'io di Lyla droide 5Y, la tempoliziotta? Era l'io di Lyla Lay, la giornalista, la cronista di Canale 00? Era l'io di un'eroina, amica di Paperinik, con cui aveva affrontato tante avventure? Era l'io di una donna sofisticata e solitaria, che viveva in un appartamento lussuoso? O era forse l'io di una naufraga del tempo, una crononavigatrice senza casa, fuori dalla sua epoca e intrappolata in un altro luogo, che non riusciva a capire?
A un certo punto, il tormento dentro al suo cuore di silicio crebbe al punto da farsi
doloroso. Si drizzò su un fianco, appoggiandosi al materasso con un mano. I suoi capelli
erano spettinati e le ricadevano sul becco. Guardò l'orologio, che segnava le quattro
passate. Fuori dalla finestra, presto un nuovo giorno avrebbe ceduto il passo alla notte
morente. Trasse un profondo respiro, e poi mormorò il suo disagio.
"... ma perché in questo posto non riesco a vivere?"
Scese dal letto, trascinandosi appresso la coperta, che infine ricadde per terra. Si
affacciò al balcone e osservò attentamente la città in procinto di svegliarsi, cercando
di assaporarne l'odore, il sapore. Il sapore di quella notte, che le aveva riportato alla
mente tante angustie.
Tutte le Lyla esistenti... la Lyla tempoliziotta, la Lyla giornalista, la Lyla donna
sofisticata e solitaria, la Lyla nella mente di Pk, la Lyla nella mente di Cinthya, quella
nella mente di Angus, Morrighan, Dan, Vertighel, Tyrrel e mille altre immagini di sé,
frammentate e numerose come le stelle in cielo, erano tutte diverse, eppure tutte reali e
tutte ugualmente valide. Ma Lyla... la VERA LYLA, quale era di queste? Qual era
l'immagine di sé che corrispondeva alla vera lei, chi tra le altre persone aveva visto la
sua vera essenza? Chi era veramente... Lyla?
La città, ancora silenziosa, non aveva risposte per lei, e la brezza notturna soffiava fresca nei risvolti della sua camicetta slacciata. La tristezza si stava impadronendo di lei, quando improvvisamente il vento cambiò direzione, portando ai suoi sensori olfattivi un nuovo odore. Guardò al suo fianco: il bocciolo sul geranio di Cinthya si era appena schiuso, esplodendo timidamente di un vivido colore rosa.
E improvvisamente, Lyla capì.
Di corsa, uscì di casa e salì sul tetto. Si avvicinò al parapetto e contemplò la
città dall'alto: i toni rosati del sole nascente, ancora nascosto oltre il mare, si
stavano già facendo strada nel cielo nero, rubando luce alle stelle. Lyla prese la
rincorsa e poi saltò, usando tutta la sua forza di droide. Il lunghissimo balzo la fece
atterrare sul tetto di un palazzo vicino, frantumando il pavimento nell'urto. Lyla si
rialzò e riprese a correre. Corse a perdifiato, iniziando a saltare di tetto in tetto.
Corse, fino a perdersi nella danza della vita che animava la città: corse sopra i
lampioni ancora accesi, sopra le prime macchine che si mettevano in moto, le sveglie che
suonavano, i cani che abbaiavano nella pallida luce del mattino, i pendolari che si
alzavano di malavoglia, affrontando il freddo pungente delle ore tra la notte e l'alba.
Corse danzando sui davanzali, sui parapetti, sui cavi elettrici, saltando sui camini,
facendo scappare i piccioni appollaiati pigramente sui cornicioni. Corse più veloce che
poteva, senza limitarsi o trattenersi, lasciando al suo passaggio appena un'ombra, o
increspature in una pozzanghera. Corse attraverso i quartieri di lusso e i quartieri
popolari, talvolta scendendo al livello della strada, e poi riarrampicandosi in alto, in
cima al mondo.
Giunse a un cantiere in costruzione: lo scheletro del palazzo, ancora nudo, svettava sopra
di lei, la sfidava col suo giganteggiare impertinente. Lyla si gettò a volo d'angelo,
afferrandosi a una trave d'acciaio, e roteò assecondando la sua spinta, accovacciandosi
sopra di essa. La sua camicia man mano le stava scivolando giù dalle spalle, ma a lei non
importava. Saltò ancora, rimbalzando di trave in trave: una di esse, appesa a una gru, le
fece da scivolo per arrivare all'interno della costruzione. Senza fermarsi si arrampicò
agilmente verso l'alto, puntando alla cima, come se stesse scalando l'Everest.
Finora aveva sempre cercato di entrare in un ruolo precostituito, e aveva sempre fallito.
Saltò al collo di una gru, abbrancandosi a un palo giallo con gambe e braccia.
Tutti i suoi tentativi di fare pace con sé stessa l'avevano portata a cercare di ritagliarsi un ruolo, di creare uno schema logico, necessario a una macchina per riconoscersi.
Mentre avanzava mise un piede in fallo, e scivolò. Si ritrovò a penzolare nel vuoto, aggrappata con una mano a una sbarra di ferro a metà del braccio della gru.
Ma in questo modo, non aveva fatto altro che farsi del male. Aveva sbagliato tutto fin dall'inizio.
Provò paura: da quell'altezza, perfino lei si sarebbe sfracellata. Eppure il pensiero di avere paura le ridiede coraggio. Si afferrò anche con l'altra mano.
Era pur vero, che tutte le versioni di Lyla esistenti nelle menti degli altri... tempoliziotta, giornalista, amica, fidanzata... erano reali, ma non era detto che dovessero descriverla nella sua completezza.
Fece forza e tirò su anche le gambe. Aggrappandosi saldamente, attraversò la struttura di ferro portandosi sul dorso del braccio.
E invece, la soluzione l'aveva avuta sempre sotto il becco. Era stato quel fiore a mostrargliela: un germoglio appena nato, che esiste nella sua immane semplicità, al di là di tutte le parole che possono essere usate per descriverlo.
Si rialzò in piedi e riprese ad avanzare carponi, diretta verso la punta. Il cielo si era fatto chiaro.
La chiave di tutto... il modo per vivere in qualunque luogo e in qualunque epoca... era la semplicità. Ora era chiaro.
Finalmente giunse sulla punta estrema del braccio della gru, e si alzò in piedi, inspirando profondamente.
Per esistere, non doveva essere altro che quello che era sempre stata nel profondo del suo cuore... Lyla.
Infine, si sfilò la camicia e la gettò via nel vento, e scoppiò a ridere in modo incontrollabile.
Lyla, punto e basta... non la Lyla tempoliziotta, la Lyla giornalista, la Lyla amica, la Lyla donna... semplicemente sé stessa, un'unica entità formata da tutti questi aspetti della sua personalità, una entità vivente ed indipendente, che pur essendo soggetta al giudizio degli altri, può rimanere sé stessa qualunque esso sia. Questa rivelazione la fece sentire finalmente libera.
Il Sole sorse, inondando Paperopoli di luce dorata. Lyla allargò le braccia e si lasciò riempire dal suo lieve tepore, lasciò che la sua luce fioca baciasse il suo viso. Non si era mai sentita così viva.
E finalmente, era felice.
FINE
COMMENTARIO DELL'AUTORE
Questa volta allego un commentario molto breve, così come è breve questa storia: piccola, semplice, ma allo stesso tempo carica di significati.
Innanzitutto, diamo a Cesare quel che è di Cesare. Questa
storia è dedicata a quattro grandi artisti: due di essi sono italiani, gli altri due
americani.
Gli italiani sono Bruno Enna e Claudio Sciarrone:
uno sceneggiatore e un disegnatore che mi permetto di annoverare tra i più grandi talenti
che passi casa Disney. Questa storia la dedico a loro perché ci hanno dato quella
stupenda e poetica interpretazione di Lyla che abbiamo avuto occasione di ammirare (unica
storia degna di nota) nello speciale 2001 "Duckmall". Enna e Sciarrone,
l'uno col suo narrare introspettivo, scandito da lunghi silenzi e pudica tristezza, e
l'altro col suo segno incisivo, sensuale, realistico eppure raffinato, hanno saputo
scavare insieme nella personalità di un personaggio troppo e tristemente trascurato, che
nonostante sia stata oggetto qualche approfondimento nel corso della serie ha ancora un
milione di cose da dire, e questo ne è un esempio. La Lyla che vi presento io è assai
simile a quella che ci presentano loro: un personaggio difficile, tormentato a modo suo,
sensuale, una droide lontana dal suo tempo, straniera in terra straniera, che non ha un
luogo in cui riesce a vivere serena, intrappolata tra una futuristica Paperopoli dove ha
la dignità di un elettrodomestico, e in un presente dove è costretta a vivere una vita
falsa, nascondendo la sua vera natura. Questa è la vera Lyla... o almeno, la MIA Lyla.
Gli artisti americani, invece, sono Frank Miller e John
Romita JR. Questi due signori sono responsabili di aver creato quella che
considero una delle più belle pagine in assoluto del fumetto americano, ovvero la
rilettura delle origini di Devil, pubblicate in Italia su Marvel Magazine 1-3
nell'ormai lontano 1994. Lessi quelle storie quando ero poco più che un bambino, eppure
sfogliandole nuovamente oggi ritrovo intatta la stessa sensazione di meraviglia, lo stesso
coinvolgimento che così a fondo mi colpì quando muovevo i miei primi timidi passi da
lettore di fumetti e non avevo ancora messo mano una sola volta alla tastiera per dar
forma ai miei sogni. Oggi, nel 2002, ho voluto dare la mia personale rilettura di quel
fumetto: così come Matt Murdock, studente di legge cieco dotato di straordinarie
capacità sensoriali, nel cuore della notte usciva per correre sui tetti, posseduto dalla
sensuale danza della notte brulicante di vita e rumori, sotto lo sguardo della Luna
pallida nel suo silenzioso e lontano giganteggiare, allo stesso modo Lyla trova nel
correre sui tetti, ergendosi al di sopra della meschinità e banalità e dei suoi
tentativi falliti per imitare le persone normali, il modo per evadere da un'esistenza
falsa, ritrovando in tal modo la vera sé stessa. E' un momento di intensa catarsi
esistenziale, è una fuga precipitosa, che la spinge a liberarsi di tutto, a lasciarsi
tutto alle spalle e stringere veramente tra le mani la propria vita, non facendo quello
che vogliono gli altri, dimenticando ciò che tutti si aspettano da lei, e sentendosi
finalmente una persona vera, viva, libera. E così, tutte le Lyla tornano ad essere una:
Lyla droide, Lyla giornalista, Lyla amica, Lyla amante, tutte queste Lyla non sono che
sfaccettature, frammenti del suo vero essere, che non sono in grado di descriverla
completamente se non riunendosi tutti insieme; e tuttavia anche così qualcosa manca
all'appello, qualcosa di lei che nessuno ha mai avuto il privilegio di vedere e che solo
Lyla può conoscere, giacché tutti noi teniamo per noi stessi un qualcosa di riservato
nella nostra personalità: tutti abbiamo un lato nascosto di noi, che custodiamo
gelosamente dentro al cuore, di cui siamo gli unici depositari, i custodi eletti del
nostro io interiore.
L'acquisizione della consapevolezza di questa parte di sé porta Lyla ad una
inevitabile conclusione: è una creatura che possiede vita propria, unica e irripetibile,
e così come il bocciolo di un fiore che esiste nella sua disarmante semplicità, Lyla
esiste come persona vera al di là di tutte le descrizioni e le illazioni che se ne
possono fare. E così, felice, si erge sopra il mondo e, travolta dalla luce purificatrice
dell'alba, ride.
Offrendoci nel contempo uno spettacolo niente male. :9
Autore: Silverware - flfanti@tin.it
Tutti i personaggi che appaiono in questa storia sono © Walt Disney Pictures Company e sono usati senza permesso né alcun fine di lucro. Questa storia è di proprietà intellettuale dell'autore, creata per essere distribuita gratuitamente su Internet, e specificatamente sul sito PKERS - http://pk.immaginario.net. Le situazioni di cui sono protagonisti i personaggi sono opera di pura fantasia e non vi è alcun legame con la Disney. E' vietata ogni modifica in tutto o in parte e la vendita. L'autore invita chiunque abbia letto questa storia a scrivergli commenti all'indirizzo sopra riportato.